martedì 18 novembre 2008

mRNA 18/11/08
per GISI

Messaggi d’amore
che scompaiono
nelle pagine della vita,
legati al breve ciclo
della trasmissione
di un codice genetico,
destinati al degrado
come le cose tutte
che tanto volevamo
e poi lasciamo andare.

giovedì 5 aprile 2007

Il fragore dell’onda
accarezza il mio sonno;
nel pavido tepore
a sembianza di rettile
ho disteso le membra
su un muretto di pietra.
Cancellare il passato
toglier via questi rami
resi onusti dal peso
di mille e mille foglie,
partendo dai più alti
iniziare a potare
ed uno dopo l’altro
buttare via la vita
per cominciarne un’altra.
Torna a levarsi l’onda
si erge minacciosa
ma trepida si frange
partorendo alla fine
il ricciolo che lieve
si addentra sulla sabbia
e nasconde allo sguardo
conchiglie e sassi
e frammenti di vetro;
dalla riva del mare
sale via via più lento
si inerpica a fatica
rapido si ritrae
lasciando nudi i sassi
e i vetri colorati.
Cancellare i ricordi
spazzare la mia mente
che più non resti nulla,
sassi, vetri e conchiglie
andati via davvero.
Partire da lontano
tagliare alla radice;
quando il sonno finisce
vergine aprire gli occhi
senza nulla aver visto
senza nessun vissuto,
casa, terra, famiglia.
Con passo lieve danzo
la musica di un tango.

giovedì 15 marzo 2007

Nessuno dei miei amori
è nato in primavera,
fra il rosa dei pescheti
che della terra e del cielo
accompagna il risveglio,
quando l’aria profuma
dell’essenza dei fiori
e gli animi si schiudono
al tiepido segnale
della stagione nuova.

Tutti al freddo di inverno
sono nati i miei amori,
segnati dal destino
di un gelo amaro
che non avrà più fine.
Solo come son nato
urlando la mia rabbia
ancora adesso resto
e l’urlo mi esce forte
mentre in pezzi racconti
una vita passata
che non amo ascoltare.
La mano mi accarezza
l’anima si ritrae
mentre più vile il corpo
al tuo tocco risponde.
L’attimo in cui ti ho persa -
ma ti ho mai avuta? -
è quello in cui son nato.
Solo, incerto e annoiato
nel mio smanioso andare
verso un ventre di donna,
dalla sterile mente scavo
i segni che mai ho voluto,
meglio saputo, interpretare.
Mai ti ho parlato d’amore,
più volte tu l’hai chiesto.
Muto, io, proprio io
che di parole vivo,
mai ti ho parlato d’amore,
lasciando che per me
colori, suoni e immagini
dei nostri incontri
via via più radi
in luogo di parole
che non so pronunziare,
ti prendessero il cuore.
L’attimo in cui ti ho persa.
Quando dal buio vuoto
del materno nulla
son venuto alla luce
con la vita prendendo
in un solo respiro
la paura di amare.
Sul rosso dell’autunno, ai lati della via,
in larghe macchie si spande il giallo,
si smorzano i colori dell’estate passata,
lontana la passione, verdi lussureggianti,
azzurri intensi e del sole abbagliante
l’abbacinante candore che non lascia difesa.
Già satura dei profumi della frutta matura
dell’inebriante odore delle piante, ora,
con l’odore stantio della terra che accoglie,
decompone e nel suo ventre riassorbe
ciò che un istante prima è stato vita,
punge il mio viso l’aria non più pervasa
dei vibranti sensi della nostra passione.
Sui corpi che la violenta rabbia del desiderio,
l’allegria, la disperazione, l’amore
premevano al contatto,
vedo calare di minuto in minuto
di indifferenza il malinconico inverno.

lunedì 12 marzo 2007

Scirocco tiepido,
non bava nè bufera,
teso ed insinuante,
ne avverto la presenza
dal calore di fuoco
che mi sale alle guance.
Non lo aspettavo più.
Troppo tempo è passato
dall’ultimo languore
tanto da quelle ore
trascorse nell’attesa,
mi ha colto di sorpresa
senza nessun segnale.
Non ho visto bandiere
nulla ha allertato i sensi
ignaro del pericolo
ho sentito la brezza
soffiare sul mio viso
col profumo ho inspirato
un sottile veleno.
Caldi di primavera
annunciati dal vento,
dispersa la ragione
ora vago per strada
ricercando un odore,
inseguendo il colore
della tua testa bionda,
e intanto che la cerco
colleziono un archivio
di sguardi sbarazzini
e gonne svolazzanti
che lo scirocco muove
nella mia direzione.
Deve ancora sorgere il sole
sul tetto dei palazzi.
Ti ho lasciata nel letto
caldo dell’amore di ieri
per affrontare il gelo
nella fredda cucina;
mi riscaldano i gesti
di un quotidiano amarti,
cucinare per te,
prepararti il caffé,
tazzina zucchero vassoio,
ho fretta di svegliarti
per rintrecciare il filo
dei gesti dell’amore
di cui non sono pago,
sulla tua fronte leggera
far cadere la mano
per guardare sul volto
la vita che ritorna
occhi aperti a fatica
feriti dalla luce
del sole che lambisce
ora l’angolo del balcone
per passare la mano
sul delicato ventre
ove ho sparso il mio seme.
Pronto il caffé
lo verso nella tazza
la poso sul vassoio
mescola il cucchiaino
tutto è compiuto
ritorno verso il letto
caldo solo di me.
Buona domenica amore
ovunque tu sia.
Soffio di vento nella mia vela.
Tiepido, sfumato appena,
lievissima bava
si è insinuata furtiva,
la vela che pendeva
un istante ha vibrato
per ricadere inerte.
Tempo di attesa
solo nella bonaccia
la costa a vista
e nulla per tornare.
Altro soffio, tiepido,
un poco più deciso,
la vela che si inarca,
si ingobbisce, sfarfalla,
ricomincia a tirare,
motore silenzioso,
lievissima la linea
lasciata dallo scafo,
un metro, un altro,
ancora un soffio,
bavette ripetute
che sfiorano le gote.
Tempo di attesa
solo nella bonaccia
la costa a vista
e nulla per tornare,
delle bave di vento
mi resta la memoria,
turbinio della balumina,
il gonfiarsi del fiocco,
l’impercettibile andare
senza nessun rumore
senza nessun guadagno,
la costa ancor lontana
ed io fermo nel mare.
Ma ecco che improvvisa
la bava ora rinforza,
ora il vento è girato
e la tiepida brezza
che veniva dal mare
è caldo vento
che spira dalla costa,
col paniere di suoni
e l’odore di terra,
un vaso di pandora
delle cose che amo,
dall’odore speziato,
frutta e fiori e profumo di mare,
tutto un insieme,
aspro odore di agrumi,
sentore di oleandri,
di vulcanica terra,
memorie dell’infanzia,
la vacanza iniziata
prima ancor di arrivare
avvisata dall’aria.
Ancor prima di andare.
Ancor prima di avere.
Vivere senza andare
vivere senza avere.
Tempo di attesa
solo nella bonaccia
la costa a vista
e nulla per tornare.
E’ stata un’illusione
questo sbuffo di vento,
il tempo di orientare
il fiocco e poi la randa
un metro, due,
qualche spruzzo alla prua
che comincia a planare,
mi ha portato i sapori
suonando quei motivi
che l’animo rammenta,
immagini e colori,
speranza dell’andare
di prendere la via
di lasciare alla fine
questo braccio di mare
in cui mi sono perso
con nulla per tornare.
Nei desolati spazi
che il silenzio produce,
anticipo di un tempo
che ho paura di amare,
la mia coscienza
passi incerti muove
al fascinoso baratro,
quasi barca isolata
che vento spinge
lontano da ogni terra.
Silenzio alla mia mente.
Solitudine al cuore.
Unica meta ambita
la fine di ogni sogno.
Mi trattiene il ricordo
di quel piccolo seno
che la mano ha colmato,
del corpo snello
che torna alla memoria
quando nulla rimane.
Quando sembra che il filo
la mano sia vicina a troncare
e nell’artico gelo mi volgo
a ricercarne il modo
tenue fiamma d’amore
scalda ancora il mio cuore.
Ecco perchè son vivo.
Forse sono un po’ strano;
è un pezzo che ci penso,
mi interrogo, rifletto,
provo ad immaginare
e perfino nel sogno
ne resto ossessionato,
mi rigiro nel letto,
nel momento più dolce,
mentre il sonno mi avvince,
già sto chiudendo gli occhi
e la mente si acquieta
senza più ragionare,
solo immagini tenui
e delicati suoni
circondano il mio letto,
pure improvvisa torna
ad affacciarsi alla mente,
ed anche mentre vado,
anzi forse ancor più,
girando per le strade
a zonzo, come quando,
ancora adolescente,
ricercavo quel viso
che solo di mattina
al fondo della via
ogni giorno appariva
per dannare il mio cuore,
mentre vago per strada
fissando gli occhi intenti
sulle gambe che rutilano
ed i seni affannosi
e bocche ridondanti di promesse
mai mantenute poi,
e mi perdo seguendo
svolazzare di gonne
e ticchettio di tacchi,
e brillare di occhi
nei quali, impudico,
fisso dritto lo sguardo
ancora allora, e sempre,
vincendo ogni mio sforzo
teso ad allontanare
l’inutile pensiero,
ancora e sempre,
mentre vado e dormo
e mangio e lavoro e parlo
e mi lavo e mi vesto
e torno a fare ognuna delle cose
solite di ogni giorno,
implacabile arriva
e non posso far niente,
lo stupido quesito
quell’immagine fatua,
le tue scarpe piccine
che chiudono in un guscio
ciò che sogno baciare
ma non so immaginare.
Una strega può capire
se ho girato la carta
che mi dica il destino.
Voglio guardar lontano
oltre i palazzi e le vie
e la gente ed il monte
e perfino di più,
oltre la sagoma di Capri,
più oltre ancora
voglio mettere l’occhio
più in là di quella linea
che curva appare in fondo,
far scendere lo sguardo
giù per il precipizio
che si apre lì dietro.
Non mi basta vedere
tutto il mondo qui intorno,
è di me e di te e di noi
che io voglio sapere,
è questo tutto il mondo
ed inutile è il resto
fino a quando ti amo.
Da dove vieni dolore,
da dove angoscia.
Dimmi, mare, tu che mi avvolgi
e dolcemente mi accogli.
Mare, strappa via questo filo
che, lacerata, al corpo l'anima lega,
ma piano, che io capisca,
piano, che assapori
il senso dolce della fine,
in un momento solo perdendo
l'amaro gusto della vita
spaccata tra la materia e il sogno.
Non so se il senso
di questa vita
una carezza,
un tocco,
lieve sussurro
di due dita passate
sul dorso di una mano,
potrà mutare,
nè saprò mai.
Nè, ora, se la carezza
sia mai esistita
o se io,
nella magia della notte,
nel suono, dolce,
della pioggia sul vetro,
abbia creduto
ciò che non è esistito.
Ma certo la tua mano
è stata nella mia,
e cercarti per me
conta più del mio orgoglio.
E se fossi io quello
che non ha capito.
Io che non ho sentito
i segnali che il corpo
col suo dolce languore
il leggero contatto delle mani,
della bocca il calore bruciante ,
ansioso mi inviava.
Mai le tue labbra
hanno detto parole.
Ma quante avrei potuto,
sbaglio, dovuto,
leggere nelle pieghe,
negli angoli di una carne
che, trepido, cercavo,
succhiavo, annusavo ....

E se fossi io quello
che non ha capito.
Io che nei dolci,
lunghi, anni della vita
in te riflessa
la mia mente cercavo,
stupito, stupido,
del non saper trovare
la porta vera, la giusta chiave,
la parte oscura di questa luna
così a lungo scrutata.

E se fossi io quello ...
Io, seduto in riva al mare,
mentre la luce segna
le mille strinature
di un'acqua inquieta
che troppo mi somiglia,
io quello che guarda
senza voler vedere,
io quello che ascolta
senza voler sentire,
io quello che si offre
senza volersi dare ...

Allora sarei io
quello che non sa amare.
Era grigio il sedile della mia auto,
di un grigio scuro, quasi nero,
e sopra il chiarore delle tue gambe.
Grigia, ma forse nera,
l'ombra che ti tagliava in due,
lasciando al buio ciò che non sapevo,
illuminando quello che prendevo.
Ti ho presa, ieri, o ieri l'altro,
e poi di nuovo e ancora.
Ti ho avuta?
E' una domanda grigia, scura,
quasi nera,
come il sedile della mia auto.
Tutto senza parola,
le labbra sulle tue,
lingue si cercano,
si accarezzano,
penetrando si uniscono,
senza parole,
umidità del desiderio.
Senza ricerca
la vita scorre,
amore che si incontra
senza dolore.
Magia di un bacio.
Certe strade
certi angoli
nella città
sono tuoi per sempre.
Mai lì potrò passare
senza sentire
una voce
un rumore di passi
il tuo odore.
Le strade della vita
ossessive
ripetono un nome
a me che vago
alla ricerca della via
che rischiari
il mio tavolo
il mio amore
e quella solitudine
che non so raccontare.

domenica 11 marzo 2007

Non più nuvole in cielo,
tirate via da un vento
che raggela le gote,
solo brillio di astri
e gelido il chiarore
di una luna a metà.
Fantasmi della notte
dai quali solo attendo
tranquillità serena
di un amore possibile,
pochi gesti banali,
le mani che si prendono
le labbra che si incontrano
tra la folla che guarda
e passa intorno a noi
indifferenti al mondo.
Io non voglio dormire,
china la testa sul tavolaccio,
pieno di qualche cosa
che mi assopisce i sensi.
Niente birra stasera.
Niente vino stasera,
nessun’altra schifezza
che lenisca il dolore
e mi acquieti la rabbia.
Niente crema stasera
alle infiammate piaghe
di quest’anima inquieta.
Ferite sanguinanti stasera
vi offrono la cena;
attaccate le bocche
alle piaghe ancor vive,
la saporita linfa tirate via,
regale nutrimento
il cui gusto si tinge
di lieve putrescenza,
come quando ti chiedo
- Non lavarti la fica -
per poter ritrovare
nel morbido tuo fiore
il tuo amaro sapore.
Così tutto è più vero.
Nessuna ipocrisia stasera.
Nessun profumo stasera
che copra la mia vita
a celarne la reale miseria.

sabato 10 marzo 2007

Fin quando questa faccia
la vita e il tempo
in mille segmenti
avranno sezionato,
ed anche dopo,
cercherò la donna
che dovrà risarcirmi
del danno di esser nato
nel grembo di mia madre,
che di un’infanzia negletta
da baci e da carezze
saprà lenire il dolore,
che mi darà l’amore
che puttane han rubato.
A tutte inoculando andrò
il virulento germe
del dolore vissuto.

venerdì 9 marzo 2007

Pure sarebbe bello
tenerti per la mano.
Sul tuo volto vedere
come fiori sbocciare
i rami delicati della maturità.
Solo come son nato
urlando la mia rabbia
ancora adesso resto
e l’urlo riesce forte
mentre in pezzi racconti
una vita passata
che non amo ascoltare.
La mano mi accarezza
l’anima si ritrae
mentre più vile il corpo
al tuo tocco risponde.
Guida i miei passi,
noia.
Nel sole che sorride
sui volti della gente
non ti so abbandonare,
frugando la memoria
a confrontare i gesti
di un tempo già vissuto.
Vieni a fare l’amore,
dico,
vieni a stenderti qui,
vicina,
tanto tempo è trascorso,
nel vano sogno di poterti avere.
Ma poi non so le immagini
che celano i tuoi occhi,
stringo la mano,
non so,
mentre le dita corrono
a sfiorare, tastare, aprire,
le emozioni che nascono
nascoste dai tuoi gemiti,
nulla se non il vuoto
delle parole dette
tesoro, ti voglio,
amore, ti voglio,
dammelo, ti voglio,
mi manchi, ti voglio,
ti voglio, ti voglio.
Né altro so di me
più della morte che preme
il mio ventre sul tuo,
iniezioni di morte
mentre ti prendo,
incrocio le mie alle tue gambe,
mi muovo ad esplorare
quella parte di noi
che è più facile avere.
Al mezzo del tuo volto
la morbida fessura,incerta,
si apre ad un sorriso.
Increspature, piccole brevi onde
di tesa tramontana
quando corre sull’acqua.
E scoppia la tempesta
si aprono gli abissi,
viva si erge l’onda
in un ridere pieno.
Pieno, ma ancora incerto,
incerto come il corpo
sfiorato dalla mano
tesa, febbrile, avida,
disonesta, infantile.
Si smorzano le onde,
ora il vento è calato,
si chiudono le labbra
sul tuo ridere incerto.
Provo a correrti dietro,
per un attimo
si riaccende il sorriso,
schermo al mio desiderio,
solo un istante,
ti allontani da me
dietro una porta chiusa.
Niente più alla mia mano.
Resta solo l’idea
del tuo corpo lontano
che mi sfiora le dita,
ti sento nel mio palmo.
Tengo alte le mani
per non sfiorare nulla
che cancelli il ricordo.
Canestri di parole
la mente intreccia
o il cuore
mentre vado
del mio solito andare.
Parole inutili
per me che sono
il matto
e porto nella vita
leggera l’innocenza
di un cuore ancora vivo.
Scarpette rosse
poggiate lievemente
sul deserto del cuore
a passo a passo
l’arida terra han scavato
lasciandovi una traccia
disegnando una via
che vento freddo,
tramontana di addii,
rapido ha cancellato.
Dura la terra trema
alla lieve pressione
delle scarpette rosse
in ogni traccia
sotto ogni passo
si è insinuato un seme
seme duro, coriaceo,
capace di nutrirsi
crescendo e generando
nel niente del dolore.
I gigli della sabbia
bianchi fiori di mare
segnano il tuo percorso
vibrano come corde
inondano il deserto
di suoni appassionati
tempesta di emozione
che risveglia la terra,
germogliano qui e là
nuove tracce di vita.

giovedì 8 marzo 2007

Un’immagine, ora,
finalmente è arrivata
per riempire lo spazio
che anticipa Morfeo,
per farmi scivolare
nel torpore del sogno.
Dolce. Leggiadra.
Di spalle, ora, ti vedo,
morbidamente stesa,
ed il pensiero scivola
quasi fosse una mano,
si allunga, si ritrae,
scende e ritorna su.
Scivola come l’acqua,
come un soffio di vento;
rapido chiudo gli occhi
a mantenere ferma
l’immagine di te
perchè torni nel sogno.
Non mi sfidare donna
a vuotare il mio cuore.
Non di me ho timore,
ma piuttosto per quello
che potrai sopportare.
Io non voglio dormire,
china la testa sul tavolo
di una buia taverna,
pieno di qualche cosa
che mi assopisce i sensi.
Niente birra stasera.
Niente vino stasera,
nessun’altra schifezza
che lenisca il dolore
e mi acquieti la rabbia.

Non mi sfidare.
Pensa, invece, se a te
non sia meglio dormire,
ignorare, fuggire,
non scendere gli abissi
che due corpi e due cuori
possono generare?
Pensa, non mi sfidare.
Ogni sfida ha due facce,
ti obbliga a puntare,
una moneta via l’altra.
Giocando su te stessa
senza averne coscienza
ci troverai impegnato
tutto il tuo capitale.
Pensa, chè io non ho timore
di mettere sul piatto
tutto quello che ho.
Ovunque, sopra e dentro
il tuo piccolo corpo indomito
ho cosparso il mio seme;
ovunque, sopra e dentro
il tuo piccolo corpo indomito
è rimasto il segno delle mani;
ovunque, sopra e dentro
i tuoi fondi occhi scuri
ed i fianchi protesi
a cercare il mio sesso
ed il morbido ventre
nel mezzo della lotta,
alte le gambe, inchiodata tu
sotto me che scavavo,
spingevo, frugavo,
il mio sguardo ha ferito la carne,
piccolo corpo in minuti frammenti
lacerato, sezionato, violato.
Ora che nella mente
affiorano gli ovunque
di momenti lontani
cerco di ricomporre
dai minuti frammenti
la tua immagine intera.

venerdì 2 marzo 2007

E' finita la scuola
tempo lontano
è finita da molto
e comincia l'estate
pomeriggio assolato
tapparelle abbassate
filtrano i raggi
del sole di occidente
particole di polvere
ipnotizzato osservo
che danzano nell'aria
senza nulla da fare
attendo invano il sonno
che riempia la noia
di un pomeriggio vuoto
e ti immagino al mare
quel mare mai veduto
ma l'immagine muore
ed ancora ti vedo
come ti ho sempre vista
nel tuo incedere pigro
vieni verso di me
solo pensieri casti
il prenderti per mano
e sfiorarti la guancia
le labbra sulle tue
un abbraccio era il più
della sensualità di allora
perchè allora ti amavo
del mio amore malsano
se fossi stato ieri
l'uomo che sono oggi
le mani sui tuoi fianchi
e la mia lingua ovunque
donna ti avrei voluto
non come mia regina
quanti anni avremmo avuto
io steso dietro te
a portarti il calore
a toglierti le voglie
e figli e casa e...
donna ti avrei tradita
regina non potevo
certo avremmo sofferto
ma non staremmo adesso
a mettere a confronto
il tuo vuoto ed il mio.
Non c’è nulla di te
che non conosco.
Tutto ricordo,
analitica torna
la forma dei tuoi seni,
il sesso frastagliato
e la morbida rosa
di rado aperta a contenere
il fuoco di una enorme passione.
Dalla magica scatola,
che ha conservato intatte
le notti e i giorni
della follia di amore,
settiche immagini
a mille e mille.
Dettagli, prospettive, squarci,
ginocchia, piede, pancia
o turgidi capezzoli,
la curva dei tuoi fianchi.
Tutto io conosco;
ma il fuoco dell’amore
che sopravvive al tempo
brucia tutti i ricordi.
Nuovo e più bello
appare il corpo
che alle mie braccia
trattengo in disperata,
infantile, interminabile morsa.
Conducimi per mano.
Dal mondo delle fate,
dove il sogno si incrocia
con la realtà che sfuma
i suoi incerti contorni,
in cui per troppo tempo
la vita ho consumato,
voglio mi strappi via.
Ferito a morte,
il tempo non mi basta
per gustare il sapore
di ciò che non ho avuto.
Conducimi e verrò
senza nessun rimpianto
a consumare la vita,
lasciando che le lacrime
che ho trattenuto invano
come nebbia confondano
le linee ed i colori.
Senza più desideri,
per sempre immerso
nel tuo sapor di miele.
Se dietro la vetrata del mio balcone
in questa notte, ora, in luogo del chiarore
che, tenue, diffondono le stelle,
illuminata dal raggio di una magica luna
dovessi scorgere la falce tua brillare,
non saprei dirti, ora, nè vorrei,
se la vita ho vissuto.
Ti narrerei una storia di momenti e momenti,
sfiorando appena le mie parole
la dura scorza di quanto si nasconde
nei gesti, nelle parole dette, nei baci,
nelle carezze date e in quelle ricevute,
fisso mirandoti nel vuoto oscuro delle orbite;
ti narrerei le storie a mille a mille
a tenere lontano della fine il principio,
fisso il mio sguardo nel vuoto a rimirare
ciò che poteva essere e non è stato mai.

giovedì 1 marzo 2007

Io ti voglio scopare
sulla mia scrivania sdraiata
o sull’immaginato tavolo
di un’inesistente cucina
i piedi dritti alle mie spalle
le cosce aperte e la tua fica
consegnata al mio sguardo
ed al mio sesso che forte
posa sulle tenere labbra
e di colpo la infila.
Io ti voglio scopare
nell’avida tua bocca,
inginocchiata sul tappeto,
da un fantastico camino
della mia fattoria di sogno
illuminata ed accesa,
guardando la tua lingua
che lentamente scorre
sulla pelle nuda
del sesso che tu inghiotti.
Io ti voglio scopare
in quell’immaginato prato
del mio bosco di fate,
carponi, le mani tue nei fiori,
il tuo culo per aria
le mie mani posate
sui morbidi tuoi fianchi
con violenza tirando
il bel corpo al mio sesso
che la tua carne apre.
Io ti voglio scopare
nell’immaginato mondo
della mia mente fantastica
in ogni parte presa
senza nulla lasciare
della bianchissima carne
che il mio incubo accoglie
quasi che l’anima
attraverso i tuoi sensi
io potessi carpire.
Io ti voglio scopare,
chiavare, penetrare,
prendere, violare,
trapassare, afferrare,
profanare, inondare,
sommergere, trafiggere,
crivellare, infilzare,
senza nessun riguardo,
di te nulla sapendo,
senza ragione alcuna
oltre la mia passione.

martedì 27 febbraio 2007

Vorrei narrarti dei miei pensieri tra veglia e sonno,
ma penso, poi, chi può reggere l’urto di un’anima dannata?
Ci vuole mente aperta e cuore e voglia
e poi ancora cuore e cuore.
Ed occhi buoni a leggere fino nel fondo,
via dallo schermo delle parole vuote,
al fondo delle voglie decisa tendendo la mano
a cogliere la verità dell’emozione.

lunedì 26 febbraio 2007

Vorrei con le parole disegnare
l’immagine dei suoni
che mi vibrano dentro;
le cerco allora, sono tante,
nella mente si inseguono,
una dopo l’altra le guardo,
le soppeso, le riascolto,
le stendo sulla carta,
piccole, lunghe, tenere,
presuntuose, morbide,
dure, gentili, accattivanti.
Sul palmo della mano
le giro e le rigiro,
e ad una ad una le cancello.
In una valutandone
il suono e il sentimento
nessuna sembra degna
di ciò che muovi in me.
Per dirti cosa sento
non troverò parola,
tu prendimi la mano
e colora il silenzio
con quello che ti va.
Paura di scoprire
che dietro questa vita
non se ne trovi altra
che valga la ricerca,
il tempo, il duro affanno
che abbiamo dedicato
a cambiare le cose.
Gli estranei volti
che mi trovo di fronte
non leggono la pena
che spinge il mio sentire
oltre questa barriera
che vi ostinate a dire
normalità della vita.
Pure non so restare
senza che di una donna
mi ritorni il calore,
senza che le mie mani
sul suo seno si posino
o nel dolce roseto
al centro del suo ventre,
senza che il suo sapore
mi riempia la bocca,
senza poter succhiare
dall’ignaro suo corpo
la coscienza del mondo.